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Recessione economica e minacce di voto anticipato
Il modello politico del Brasile è in profonda crisi. Lo testimonia il recente scandalo che ha coinvolto personaggi di spicco, dal presidente della camera (proprietario di 4 conti in banche svizzere), a un figlio di Lula: una vera e propria “Mani Pulite” brasiliana che si aggiunge ai già pesanti problemi economici del paese. In questo contesto è ancora più rilevante l’accusa di impeachment (per alcuni) o di tentato golpe (per altri) che deve fronteggiare il presidente Dilma Roussef. Un’accusa che non ha i numeri per essere portata in tribunale, ma che dimostra ulteriormente la necessità di un rinnovamento di regime: quello che l’autore auspica - con realistico pessimismo - come un passaggio dal sistema presidenziale a quello parlamentare.
«Ogni crisi rappresenta un’opportunità, come del resto indica l’etimologia della parola, affinché una nazione cambi ciò che non funziona. Mi pare evidente che questo momento di grave crisi per il Brasile dovrebbe essere usato per sostituire il regime presidenziale con quello parlamentare, assai più flessibile ed al passo con i tempi». Armando Vasone è stato uno degli “inventori” di Lula quando in Brasile c’era ancora la dittatura e, la sua, è forse l’analisi più lucida oggi proveniente dal paese del samba.
Peccato solo che in Brasile la sua analisi sia assolutamente minoritaria. Il gigante sudamericano è diviso da tempo in due fronti contrapposti, con il primo che vorrebbe l’impeachment, ovvero l’incriminazione della presidente Dilma Rousseff perché colpevole di avere truccato i bilanci dello stato, mentre il secondo, invece, denuncia un tentativo di “golpe”.
Sullo sfondo una lotta per il potere che coinvolge i principali attori dell’attuale vita politica brasiliana – dal vicepresidente Michael Temer, al presidente del Senato Renan Calheiros, a quello della Camera, Eduardo Cunha, per non dire dell’ex presidente Lula da Silva – che non sembrano interessati per nulla o quasi alle uniche due variabili importanti per il futuro del Brasile, ovvero la crisi economica che rischia di “far fallire il paese” (il verbo “quebrar” l’ha usato in off solo ieri il ministro dell’Economia, Joaquim Levy) e la “Mani Pulite” verde-oro che ha decapitato nell’ultimo anno i vertici dell’imprenditoria e della politica brasiliana.
«Non sono una ladra e questo è un golpe alla paraguayana». Così si è difesa la presidente Rousseff da quando la domanda di impeachment presentata mesi fa da tre giuristi – tra cui anche Helio Bicudo, uno dei fondatori nel 1980 del PT –, è stata accolta da Cunha che, in teoria, è un suo alleato essendo membro del Partido do Movimento Democrático Brasileiro (Pmdb), partito della coalizione di governo.
Per la cronaca Cunha è tutt’altro che un “angelo moralizzatore” e se l’impeachment contro Rousseff è conseguenza di quanto accaduto lo scorso 8 ottobre – quando la Corte dei Conti brasiliana denunciò bilanci truccati per 106 miliardi di reais, circa 35 miliardi di euro – la cosa strana è che il presidente della Camera ci abbia messo 2 mesi a decidere.
Il motivo è semplice: se infatti Dilma è accusata di avere falsificato i conti usando miliardi delle banche statali per coprire buchi di bilancio, Cunha “rischia il posto” per un processo contro di lui nel Consiglio di Etica della Camera. Dalla “Mani Pulite” che sta sconvolgendo il Brasile è infatti emerso che il presidente della Camera aveva almeno 4 conti milionari in Svizzera non dichiarati. E così, proprio mentre Rousseff veniva messa spalle al muro dalla Corte dei Conti per le sue “pedalate fiscali” (così chiamano i brasiliani la contabilità ‘creativa’), Cunha alimentava la teoria che i milioni sui suoi conti svizzeri non dichiarati erano frutto di “fortunati investimenti” nel “rigoglioso settore africano della carne in scatola”.
A quel punto – era la metà di ottobre – tra PT (e governo) da un lato e Cunha dall’altro iniziava una trattativa sotterranea: tu presidente della Camera blocchi la richiesta di impeachment contro Rousseff e noi del PT stoppiamo il Consiglio di Etica. Deus ex machina del “negoziato”, l’abile ministro della Casa Civil Jaques Wagner, già governatore di Bahia e uomo di Lula.
Tutto bene sino all’ultima settimana di novembre quando, in appena 24 ore venivano arrestati nell’ambito della “Mani Pulite” brasiliana tre pezzi da 90: l’amico “cassiere” di Lula, José Carlos Bumlai, il capo del governo (e del Pt) al Senato, Delcídio do Amaral, ed il miliardario André Esteves, presidente di Btg Pactual, la banca d’investimenti più importante dell’America Latina. Lì l’accordo Pt-Cunha va a farsi benedire e ricominciano le baruffe degne più di un sultanato che del paese più importante delle Americhe dopo gli Usa.
Passano pochi giorni ed un figlio di Lula viene indagato per avere intascato da un lobbista (arrestato) 2,5 milioni di reais (circa 700.000 euro) che gli inquirenti ritengono siano la “retribuzione” per una legge ad hoc che avvantaggia il settore auto approvata dall’ex presidente nel 2009. Per questo, il 17 dicembre prossimo lo stesso Lula sarà interrogato dalla Polizia.
Improvvisamente, dopo 2 mesi di “letargo”, il segretario del Pt, Rui Falcão, riscopre la furia moralizzatrice ed annuncia che i suoi “scaricheranno” Cunha, aprendo il processo per farlo decadere da presidente della Camera e da deputato a causa dei suoi conti segreti svizzeri. Da lì all’accettazione dell’impeachment contro Dilma da parte di Cunha passano meno di 24 ore. E mentre Lula riprende a dialogare segretamente ma, questa volta, con Temer – sempre tramite Wagner – il vice presidente scrive a Rousseff una lettera molto dura in cui l’accusa di averlo sempre considerato un “oggetto decorativo” e di non essersi mai fidata né di lui né del Pmdb. La missiva doveva rimanere privata ma qualcuno vicino a Dilma la filtra alla stampa che la pubblica integralmente. Baruffe chiozzotte all’ennesima potenza con Dilma e Temer che fanno finta di fare la pace.
Le ultime tre istantanee dal Brasile sono una pioggia di soldi che all’arrivo della Polizia federale vola dalle finestre degli uffici di un inquisito coinvolto in mega–tangenti nel settore del sangue e del programma statale “Più medici” a Recife, una lite con tanto di pugni nella “Commissione Etica” in quel di Brasilia tra “onorevoli” d’opposti schieramenti e le manifestazioni per chiedere la cassazione di Dilma dello scorso 13 dicembre, assai poco partecipate.
Analizzando l’odierno verminaio politico brasiliano è difficile che Rousseff possa essere mandata a casa facilmente visto che le basteranno appena 171 voti per affossare l’impeachment contro di lei, ovvero un terzo dei voti più uno di senatori e deputati in seduta parlamentare congiunta.
In realtà, se impeachment o meno sarà – si voterà dopo il Carnevale, verso marzo 2016 – molto dipende dall’economia in crisi profonda e, ancora di più, dai prossimi sviluppi della “Mani Pulite” brasiliana.
Di certo c’è che il possibile sostituto, il vice presidente Michael Temer, è dello stesso partito di Cunha, al pari del presidente del Senato, Calheiros.
Piccolo particolare: di Temer corre voce sia il vero deus ex machina, il controllore occulto del porto di Santos dal quale, secondo il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, uscirebbe l’80% della cocaina che arriva ogni anno in Europa.
Renan Calheiros, dal canto suo, è noto alle cronache per numerosi casi di corruzione, compreso il celeberrimo Renangate, un riferimento neanche troppo velato al Watergate. Inoltre, da due settimane, il Supremo Tribunale Federale lo indaga per un presunto coinvolgimento nella Mani Pulite verde-oro.
Insomma, al di là dell’impeachment di Rousseff e visti i possibili sostituti, non è escluso che nell’autunno del 2016 i brasiliani tornino a votare anche per scegliersi un nuovo presidente della repubblica, oltre che per le già programmate amministrative.
Perché ciò avvenga conditio sine qua non è che il Supremo Tribunale Elettorale sancisca che le campagne elettorali di Dilma e del suo vice Temer sono state finanziate con soldi frutto delle tangenti Petrobras.
Se questo è il quadro – e purtroppo per il Brasile lo è, con l’aggiunta di un’economia in crisi come non accadeva dal 1900-1901 – allora forse la proposta di Vasone è tutt’altro che da trascurare. «Invece dell’impeachment se ci fossero davvero politici di livello oggi si cercherebbe di sfruttare il momento per chiudere l’esperienza deleteria del sistema presidenziale, che in Brasile forse ha funzionato solo durante l’era Vargas».
Invece di costringere il paese all’immobilismo su tutti i fronti, compreso l’economia, il sistema parlamentare offre infatti i poteri del presidente al primo ministro ma ha un enorme vantaggio: quest’ultimo può essere sostituito in pochi giorni, basta la sfiducia delle Camere, mentre come vediamo oggi con Rousseff, oltre al trauma della sua cassazione con una parte politica che grida al golpe ed una legislazione confusa in materia, anche se l’impeachment dovesse andare in porto saranno necessari lunghi mesi.
Tanto, troppo tempo sprecato – almeno sei mesi secondo gli analisti – senza peraltro avere la certezza che, chi verrà dopo, o per via istituzionale o con una nuova elezione presidenziale, sappia risolvere i gravi problemi del Brasile di oggi.
«Purtroppo – conclude Vasone con disincanto – oggi nessuno discute dell’opportunità che offre il parlamentarismo né sfrutta la crisi attuale per portarci ai livelli dei paesi più avanzati e, soprattutto, per farla finita in un colpo solo con tutte le “trame sotterranee” che oggi impegnano Brasilia dove, invece, ben altre dovrebbero essere le priorità per il bene del mio paese».
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